La pediatra Alessandra Bonomi in pensione dopo 35 anni: «Grandissima passione, ora devo rallentare»
«Le mamme sono più ansiose di un tempo, perché spesso non hanno una rete che le sostiene», dice la dottoressa che per la continuità all'ambulatorio di via Calepina ha messo in atto una staffetta con la collega Elisa Andreatta che ha preso il suo posto
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TRENTO. Dopo 35 anni passati a prendersi cura dei bambini, ma anche delle loro famiglie, la dottoressa Alessandra Bonomi, pediatra con ambulatorio in via Calepina, è andata in pensione.
«Credo di aver dato molto ma era giunto il momento di lasciare. Continuerò a lavorare in libera professione, ma ovviamente con ritmi diversi. È tempo che riprenda in mano la mia vita con più leggerezza. Ho fatto questo lavoro con grandissima passione, mettendoci tutta me stessa, ora è il momento di rallentare. Quello di noi pediatri è un lavoro delicatissimo e importante. Prendiamo in carico il bambino, ma diventiamo punto di riferimento anche per le famiglie».
Dottoressa, lei ha sempre lavorato a Trento?
No, dopo la specializzazione il mio primo ambulatorio è stato a Giovo. Una bellissima esperienza anche perché sono stata la prima pediatra della valle: prima c'era il consultorio. Ho mantenuto diversi legami lì e ci sono miei ex pazienti che poi mi hanno portato i loro figli. Sono venuta a Trento nel 1992, quindi 32 anni fa.
Il distacco dai suoi oltre mille pazienti non è stato però traumatico, almeno per loro. Ha utilizzato una "sfaffetta" con la pediatra che ora l'ha sostituita che è stata molto apprezzata dalle famiglie.
Si, la dottoressa Elisa Andreatta mi ha affiancato per tre mesi lo scorso anno e poi negli ultimi sei mesi ho diviso il lavoro con lei, dimezzando il mio impegno. In questo modo i pazienti non hanno dovuto scegliere un nuovo pediatra, c'è stata una continuità e soprattutto anche una condivisione del modo di lavorare.
Come sono stati questi ultimi giorni di lavoro?
Sono stati giorni bellissimi e carichi di emozioni. Vedere le mamme piangere quando ti salutano, leggere i loro messaggi, è qualcosa che mi ha colpito e gratificato molto.
Come è nata la sua passione per la medicina e in particolare per la pediatria?
Mio papà era medico e quindi fin da piccola ho respirato in casa la passione per la medicina. Lui era ortopedico, ma ricordo che quando faceva i corsi alla Croce Rossa mi faceva fare da manichino. Altri tempi, ora non sarebbe più possibile.
Come riesce una pediatra a "sopportare" la malattia e la sofferenza dei bambini, e non parlo di cose banali che passano, ma di malattie gravi, a volte non curabili?
È sempre difficile, credo che sia importane dare alle famiglie l'appoggio totale, che va al di là della terapia farmacologica. Ho frequentato per alcuni anni l'oncoematologia e sono stata a stretto contatto con la sofferenza e l'elaborazione del lutto. Perdere un bambino è un qualcosa che è difficile da accettare, ma credo che il dialogo con le famiglie, il farsi carico delle loro preoccupazioni, piccole o grandi che siano, sia l'unica strada.
Oggi si dice che le mamme siano più ansiose di un tempo. Fin troppo.
È vero, a volte sono più insicure. Non tutte le famiglie hanno una rete che le sostenga come accadeva un tempo. C'è il problema del lavoro: le mamme non possono stare a casa, non possono lasciare i figli a nessuno, non possono condividere le loro preoccupazioni. A volte avverto tanta solitudine. E poi c'è internet che offre informazioni che a volte le persone non sono in grado di interpretare correttamente e quindi o si preoccupano troppo o troppo poco.
E i papà come sono?
Sono cambiati molto negli anni?Rispetto ad anni fa sono sicuramente più presenti, sono interscambiabili con le mamme anche se loro sono meno ansiosi. Sono anche più affettuosi di un tempo, hanno cambiato il modo di manifestare i loro sentimenti, sono più accudenti.
Quale è secondo lei la vera emergenza pediatrica?
Molto difficile dirlo perché noi vediamo bambini di ogni età, dai neonati agli adolescenti, e ogni periodo ha i suoi problemi. Io però ho sempre prestato una certa attenzione al lato emotivo. È importante parlare con i genitori, cogliere le loro preoccupazioni, indirizzarli agli specialisti nel momento giusto. Occorre avere le antenne sempre dritte e cogliere in tempo alcuni segnali . Penso ai problemi di deficit di attenzione che sono aumentati tantissimo negli anni. Ci sono ragazzi che ancora adesso passano anni da incubo a scuola perché non riescono a stare al passo, perché nessuno ha diagnosticato prima il loro problema. Sono cose che segnano molto i ragazzi. A volte i genitori si preoccupano della febbre o della tosse ma quelle sono cose che passano. Queste, invece, sono cose che possono condizionare la vita futura. Sentirsi l'ultimo della classe, essere emarginato è qualcosa di drammatico.
Cosa pensa della proposta che i ragazzi vengano assistiti dai pediatri fino a 18 anni?
Approvo. Già oggi molti chiedono di rimanere fino a 16 anni, ma 18 sarebbe ancora meglio. L'adolescenza dura sempre di più, le questioni sono tante e quindi accompagnare i ragazzi fino alla soglia dell'età adulta mi sembra una buona scelta.