Carlin Petrini di Slowfood «La montagna è stata svuotata per farne divertimento: cambiamo»
Sostenibilità e biodiversità. Una via obbligata per Carlin Petrini, classe 1949, fondatore di Slow Food nel 1989, gastronomo e attivista dell’etica del cibo. Il Petrini-pensiero non sarà fisicamente presente al Filmfestival (per motivi personali è stato annullato il suo intervento previsto a Trento oggi), ma lo spirito del cibo buono, pulito e giusto si intreccia profondamente con i temi del Festival.
Petrini, quale il cambiamento nell’approccio alla terra che l’attualità ci mette davanti attraverso le lenti del produrre cibo e del consumarlo?
«Siamo davanti a una svolta epocale. La riflessione sugli stili di vita e i nostri comportamenti quotidiani è imprescindibile. Non sono rinviabili l’agricoltura di prossimità, non invasiva, legata al territorio; la riduzione marcata della chimica; il rispetto della fertilità dei suoli, l’uso responsabile dell’acqua. Serve mobilitare migliaia di contadini e anche milioni di – più che consumatori – preferisco chiamarli cittadini. C’è lo strapotere delle multinazionali, ma in tanti possiamo farcela».
Con l’ex presidente uruguaiano Mujica e con il compianto scrittore cileno Luìs Sepúlveda avete messo in un libro un dialogo sulla felicità. Cosa c’entra con il nostro Pianeta e la sua salute?
«Si punta sempre sulla felicità personale, che non è assenza di problemi, come diceva il sociologo Bauman, ma vivere per qualcosa, lottare per superare ostacoli. Io credo che i comportamenti virtuosi a favore della comunità in cui si vive e della salute del globo diano la felicità individuale, oltre che il benessere collettivo».
E la montagna, che ruolo può avere?
«Abbiamo svuotato la montagna per renderla un divertimentificio. Dobbiamo riscoprire la sua dimensione economica al di là del turismo. Mantenere la montagna giova a tutti gli ecosistemi. Come ha detto il climatologo Mercalli a Trento, la migrazione verticale nei prossimi decenni ridimensionerà le aree metropolitane, calde, affollate, caotiche. Si possono recuperare i borghi delle Alpi e dell’Appennino, con buone pratiche, nuovi agricoltori, salubrità dei suoli, attraverso leggi che la politica ancora non riesce a fare. La civiltà contadina di montagna ha sempre espresso valori importanti, di condivisione, solidarietà. Le soluzioni dei vecchi contadini erano ingegnose e modernissime. Attenzione ai suoli, uso parsimonioso dell’acqua. Le abbiamo buttate vie, queste pratiche. Recuperiamole!»
C’è più consapevolezza di un tempo sulla qualità, la filiera produttiva?
«Il cibo è il più grande strumento di condivisione per l’essere umano. In Italia la cultura del fast food non ha attecchito, per fortuna. Ma ora assistiamo a un’esagerazione dell’immagine gastronomica. Quasi un uso pornografico. A ogni ora si vedono padelle e spettacolarizzazione del cibo in tv o sui social. Diamoci una regolata: spesso rimuoviamo lo sfruttamento che c’è alla base di molte produzioni. Di suoli e di lavoro. I grandi produttori se ne lavano le mani, tanto la colpa è di cooperative di stranieri che gestiscono la manodopera, dicono. Io da anni propongo gli orti scolastici, il sapere genitori-figli in tema di agricoltura si è interrotto. Serve una gestione comunitaria delle mense, ad esempio».
La «clausura» vissuta per il picco della pandemia e le sue conseguenze, che tracce lasciano nella società enogastronomica in cui viviamo?
«In tanti hanno riscoperto una vocazione cuciniera casalinga e la socialità familiare. Ben vengano. Si sono fatti orti in casa: bene. Il delivery si è sviluppato, ma per la ristorazione prevedo tempi molto lenti per recuperare le quote perse. Finiti i sostegni del governo, servono idee nuove».