Ora c'è bisogno di lavoro Sì ai negozi la domenica. Intervista con Andrea Segrè
Andrea Segrè, docente universitario a Bologna, uno dei massimi studiosi delle pratiche contro gli sprechi alimentari (ed ex presidente della Fondazione Mach), non è per niente favorevole al progetto della giunta provinciale di abbassare le serrande dei negozi la domenica e nei giorni festivi: «Non mi sembra una grande idea, a meno che non ci siano delle motivazioni a me ignote - spiega Segrè - Le ragioni che hanno portato a chiudere la domenica durante la fase di emergenza erano chiare e condivisibili. Fra le altre, dare modo ai dipendenti di riposare e ridurre il rischio di contagio. Ora, non solo bisogna aprire, ma anche consentire orari più lunghi e turnazioni più ampie proprio per evitare la concentrazione dei clienti: il virus non si è volatilizzato».
L'idea può essere efficace per una nuova idea del commercio?
Non credo proprio, anche perché sul commercio alimentare va fatto un ragionamento complessivo, favorendo lo sviluppo di forme diverse di distribuzione: grande, media, piccola, all'ingrosso, on-line, diretta, di vicinato... Come la biodiversità è una ricchezza ed aumenta la resilienza alle crisi, così anche le varie forme di commercio possono soddisfare esigenze diverse, generare occupazione ed economie, dare insomma più opportunità. Adesso abbiamo assolutamente bisogno di lavorare, anche la domenica. Non dimentichiamo poi che, soprattutto in questo momento di crisi, molti lavoratori sono contenti di essere retribuiti un po' di più a fronte del lavoro domenicale.
La chiusura domenica non può valere nemmeno come un segnale verso la riduzione degli sprechi?
Lo spreco alimentare, soprattutto quello domestico che è la parte prevalente (oltre il 70% del totale, in Italia vale l'1% del Pil) si riduce facendo prevenzione e non vietando la spesa alla domenica. Bisogna promuovere l'educazione alimentare, a partire dalle scuole. In Trentino ci sono delle esperienze molto significative, ricordo in particolare l'instancabile lavoro dell'Associazione Scuola Senza Frontiere, che si prodiga da anni per promuovere il valore del cibo nelle scuole. Lo spreco non si riduce diminuendo le possibilità, anche giornaliere, di acquisto.
Davvero?
Sì, è così. Anzi, la frequenza di acquisto porta ad una maggior efficienza perché i prodotti vengono acquistati quando servono e non si fanno scorte eccessive che poi finiscono per scadere nel frigorifero o in dispensa. La prevenzione si fa insegnando a tutti che il cibo ha valore e, appunto, non va sprecato. Dai nostri studi scientifici emerge con chiarezza che le catene della grande distribuzione alimentare sprecano relativamente poco. Poi è vero che conviene fare il recupero dell'invenduto a fini caritativi in quelle strutture perché è lì che si concentrano tipologie di alimenti diversi ed è più facile dal punto di vista logistico. Il nostro spin off Last Minute Market dell'Università di Bologna ha dimostrato che sostenibilità e solidarietà si possono coniugare, ma la cosa migliore è fare prevenzione. Come per i rifiuti, il "miglior" spreco è quello che non si fa.
Tra le motivazioni legate a questa scelta c'è chi dice che i consumatori si sono "abituati" a una migliore organizzazione dei loro acquisti. Secondo lei il lockdown ha davvero cambiato le nostre abitudini?
Abbiamo realizzato un rapporto scientifico dell'Osservatorio Waste Watcher sui consumi alimentari durante il lockdown dove emerge chiaramente che gli italiani hanno fatto un corso accelerato di economia domestica imparando a fare la spesa, a conservare gli alimenti, a cucinarli, persino ad acquistarli in rete direttamente dagli agricoltori. Però non si è consolidata nessuna abitudine rispetto alla domenica, anche perché stavamo a casa tutti i giorni. Anzi, al sabato pomeriggio c'erano lunghe code davanti ai negozi, proprio perché erano chiusi la domenica. Sarebbe interessante ripetere la nostra indagine in Trentino e chiedere ai consumatori davvero cosa ne pensano, per avere informazioni basate su dati oggettivi.
Non crede che sarebbe più efficace dare più forza ai mercati locali, piuttosto di chiudere le grandi catene commerciali?
I mercati locali, cittadini, rionali, contadini ... sono una risorsa straordinaria che fra l'altro avvicina i consumatori ai produttori, che stimola l'economia locale, che anima i centri urbani, che aiuta a rispettare la stagionalità degli alimenti. Ma può funzionare per alcuni prodotti e non per tutto ciò che compone la nostra spesa. La sostenibilità deve essere valutata nella sua globalità e non esiste un sistema efficace in termini assoluti. È concettualmente sbagliato il dibattito sulla domenica aperto o chiuso: tanto poi le persone che hanno bisogno di fare la spesa nelle grandi strutture si spostano e vanno dove è aperto ed è più conveniente. Chiudere la domenica fa guadagnare altri territori, mette in difficoltà le famiglie, aumenta il traffico verso le zone turistiche che rimarrebbero aperte, fa crescere l'inquinamento
Che senso ha?
Professore, va fatta una distinzione tra il settore alimentare e quello non alimentare, quando si parla di permessi per l'apertura?
Il consumo alimentare rappresenta la soddisfazione di un bisogno primario, essenziale: se non mangi non vivi, se mangi male ti ammali. Ha un impatto sulla nostra salute, sul nostro portafoglio, sul reddito del contadino, sull'ambiente. Al settore agroalimentare dobbiamo dare massima attenzione prendendo l'insieme della filiera, dal campo alla tavola. Per fare un esempio: ci deve essere un prezzo equo che remuneri chi produce e non pesi troppo su chi acquista. In questo percorso, talvolta molto lungo, la distribuzione è un anello fondamentale. E qui ritorniamo al ragionamento complessivo, di filiera e di sistema. Gli altri settori merceologici sono ovviamente importanti, ma non sempre essenziali. Durante il lockdown ci siamo resi conto che molte merci sono superflue, inutili. C'è bisogno, come dice il Papa di maggiore sobrietà.
Le categorie economiche, contrarie alla riduzione delle domeniche di lavoro, sostengono che riprenderà il fenomeno del "turismo commerciale". I trentini, cioè, andrebbero in Veneto o in Lombardia a fare la spesa. Lei è d'accordo?
Certamente, è ovvio. Ma non solo. Perché se ho capito bene si manterrà l'apertura domenicale nelle zone turistiche. Quali? E perché quelle e non altre? E allora i centri storici delle città, penso a Trento e Rovereto, non sono forse turistici? Le persone andranno a fare acquisti fuori provincia o si assembreranno nelle zone turistiche "aperte" andando a danneggiare il turismo vero. A chi è in vacanza non farà certo piacere trovare le folle nei negozi. Ripeto c'è qualcosa che mi sfugge. Non mi pare neanche che l'apertura domenicale ostacoli chi vuole andare a Messa. Sacro e profano possono trovare i loro reciproci spazi temporali in un'intera giornata. La possibilità di fare la spesa alla domenica pomeriggio poi aiuta tutte quelle donne che lavorano e che si troverebbero private di un'importante opportunità di pianificazione del proprio tempo. In fondo questa è una forma di conciliazione famiglia e lavoro.
Secondo lei rimarrà qualche "nuova" abitudine di spesa che abbiamo maturato durante il lockdown?
Le nuove abitudini sono diverse e molte da mantenere. Ne cito qualcuna emersa dai nostri studi, peraltro adesso in fase di comparazione con altri paesi europei. Il patto degli italiani col cibo è probabilmente una delle conquiste più significative del lockdown: il cibo non solo come acquisto-rifugio per l'impossibilità di concedersi altri acquisti, ma come scelta consapevole per la propria salute e il benessere. Nel lungo isolamento fra le mura di casa l'aumento del cibo in dispensa ha generato un notevole contenimento degli sprechi e non ha prodotto aumento di rifiuti. Abbiamo cucinato molto di più e acquistato cibo stando attenti alla qualità piuttosto che alle quantità e prezzo. Da popolo di santi, poeti e navigatori siamo diventati un Paese di panificatori: farine e lievito introvabili. Fare il pane, lo dico anche per esperienza personale, rilassa!
Il Trentino come può promuovere meglio i prodotti locali e renderli più accessibili?
Valorizzando i prodotti nei negozi di prossimità e nella grande distribuzione, stimolando la ristorazione all'acquisto dei prodotti tipici e di qualità. Educare il turista è l'unica modalità per valorizzare i prodotti locali. Se la logica è quella del prezzo più basso, vincerà chi produce bassa qualità e con metodi non sostenibili.
Come si può iniziare - a livello di singolo consumatore - per un maggiore equilibrio tra consumo e reali necessità, tra bisogni concreti e sprechi. Ci dia alcuni consigli.
Suggerirei la lettura di un libro, il cui autore porta il mio nome: «Il metodo spreco zero. In sette giorni impari a non buttare più cibo, aiuti l'ambiente e risparmi centinaia di euro». È un "distillato" di studi scientifici dove sono riportati tutti i consigli pratici per rendere il nostro stile di vita più sostenibile: per la nostra economia e il nostro ambiente. Quando sarà possibile verrò sicuramente a presentarlo in Trentino.