Coronavirus: la strage nelle case di riposo Il Codacons chiede di aprire un'inchiesta I numeri da brivido nell'Alto Garda e Ledro
Mentre le Procure di molte regioni italiane hanno aperto inchieste sui morti da Covid-19 nelle case di riposo, il Codacons ha presentato un nuovo esposto anche in Trentino, questa volta sul caso dei contagi e dei decessi registrati presso la Rsa Ledro e Apsp Santo Spirito di Pergine.
Alla procura di Trento l’associazione dei consumatori chiede di estendere le indagini e di procedere - qualora fossero riscontrati illeciti - per il reato di epidemia e omicidio plurimo doloso con dolo eventuale. Secondo il Codacons, infatti, «quanto accaduto nelle case di riposo non può ritenersi una epidemia casuale, ma è una vera e propria strage».
Il Codacons rivolge un appello alla Procura di Trento «affinché vengano adottate misure urgenti in grado di garantire indagini precise sulle responsabilità della strage di anziani sul territorio».
«Chiediamo agli inquirenti di sequestrare le salme dei pazienti deceduti presso le Rsa della regione e disporre autopsie su tutti i corpi onde accertare le cause dei decessi.
Tale misura si rende necessaria per evitare che le case di riposo procedano ad eseguire cremazioni che, di fatto, farebbero scomparire le prove utili ad accertare le responsabilità dei reati commessi a danno dei pazienti delle strutture», afferma il presidente del Codacons, Carlo Rienzi. «In tal senso - aggiunge - le autorità competenti devono temporaneamente vietare le cremazioni in tutto il Trentino Alto Adige, perché documenti e cartelle cliniche redatti dalle Rsa non sono sufficienti a ricostruire le cause dei decessi e le relative responsabilità, che possono essere accertate solo tramite autopsia».
Sollecitato rispetto all’esposto, il presidente Fugatti ha detto: «Le autorità competenti valuteranno il da farsi, ma noi riteniamo che tutto, pure nella drammaticità e nella difficoltà dell’emergenza, si sia svolto correttamente».
Nei giorni scorsi la procura di Trento aveva già aperto un’inchiesta, dopo la presentazione di un esposto del Codancons su presunte carenze ed omissioni nella cura dei soggetti affetti da Covid-19. Un fascicolo conoscitivo a modello 45, il registro degli atti che non costituiscono una notizia reato.
E dall’Alto Garda e Ledro arrivano dati sconfortanti.
I numeri fanno rabbrividire: 93 morti con sintomatologia Covid-19, 102 decessi totali dall’inizio di marzo. E sono dati ufficiali aggiornati a tre giorni fa e quindi in costante (e tragico) aggiornamento. Le Rsa dell’Alto Garda e Ledro, e soprattutto i suoi anziani ospiti, stanno pagando un prezzo altissimo a questa pandemia. Ci sono le vittime, ci sono i loro famigliari. Ma c’è anche chi resiste e guarisce anche se da tanto, troppo tempo, non sente il calore di un contatto con figli e nipoti. E ci sono medici e operatori sanitari che da quasi due mesi ormai lavorano senza sosta, oltre le proprie possibilità.
E in tutto questo c’è un aspetto psicologico immediato e futuro che rischia di avere effetti dirompenti. Il dottor Alessio Pichler è consulente psicologico e supervisore del nucleo demenze senile alla Casa di Riposo di Riva, oltre che consulente di numerose altre strutture provinciali: «Posso fare un discorso generale considerato che da qualche tempo non scendo a Riva ma - afferma - la situazione è simile nelle varie Rsa. I pazienti, soprattutto quelli più lucidi ma non solo, cominciano a soffrire il distanziamento forzato ma nel contempo hanno una grande capacità di sopportazione e di comprensione della gravità della situazione. E accettano quello che stanno vivendo nella speranza che questo possa contribuire ad uscire dall’emergenza».
Distanti dai loro cari ma sempre più vicini tra loro e con il personale che lavora all’interno delle strutture: «In effetti - prosegue il dottor Pichler - la capacità di fare comunità tra anziani è diventata fortissima così come il rapporto tra personale sanitario e ospiti. Chi soffre maggiormente sono i famigliari: il venir meno di quei momenti di contatto quotidiano, con il proprio caro ma anche con il personale della o delle strutture, è estremamente pesante per loro nonostante tante strutture, come quella di Riva anche, si siano dotate e si adoperino per videochiamate e contatti audio e video periodici. Le Rsa sono comunità fatte di molte relazioni. Che questa emergenza ha segnato profondamente». E poi c’è il personale, perennemente al lavoro e perennemente a rischio. Che ripercussioni psicologiche subisce o potrà subire in futuro? «Lo stress psicologico del personale è immane - sottolinea il dottor Pichler - Ovunque medici e operatori sono stremati. Purtroppo però il peggio verrà dopo. Oggi i ritmi di lavoro e la delicatezza del loro operato non consentono di fermarsi a pensare ma quando questo sarà possibile il colpo rischia di essere durissimo. Sarà un momento non facile, di vera e necessaria ricostruzione».
«Tra i nostri ospiti lo stress è notevole e sta crescendo - conferma la psicologa Sara Dellaidotti dell’Apsp Città di Riva - Soprattutto i pazienti più lucidi comprendono la situazione ma di giorno in giorno diventa sempre più difficile da accettare». «Ma non ci sono ospiti che si stanno lasciando andare anche se per tutti noi è un’esperienza impensabile, sconvolgente, senza avere la possibilità di quel contatto fisico che era quotidiano ed essenziale per tutti» sottolinea Maria Tavagnutti, infermiera da 27 anni in servizio alla struttura di via Ardaro, da oltre un mese ormai fuori di casa e costretta a non vedere la sua famiglia per preservare la salute dei suoi cari.
Nella casa di riposo di via Ardaro, tra gli operatori, si respira stanchezza ma anche tanta voglia di combattere, fino in fondo. E un pizzico di rabbia: «Le attrezzature ce le siamo dovute comprare grazie alla lungimiranza e all’impegno del nostro direttore Davide Preti che difenderemo in ogni sede - afferma il dottor Sergio Bandini, coordinatore sanitario del Città di Riva - L’Azienda sanitaria ci ha letteralmente abbandonati a noi stessi, ci mandano la task force e chiudono il recinto a buoi scappati. Noi ci siamo dovuti arrangiare per tutto, per i presidi, per le terapie, consultandoci tra colleghi. I dispositivi continuiamo a reperirli da soli sul libero mercato. Abbiamo 18 operatori sanitari a casa per positività e metà del comparto infermieristico. Qui c’è gente che da due mesi sta facendo turni di 10 ore al giorno, con una pressione fisica e psicologica impressionante». E il futuro? E la possibilità per pazienti e famigliari di potersi rivedere? «L’emergenza durerà buona parte dell’estate - prosegue il dottor Bandini - e io temo che ce la ritroveremo il prossimo inverno se non si trova una cura, un vaccino che almeno protegga all’80%. Riaprire ai famigliari? Non se ne parla almeno fino a fine giugno. Poi vediamo. I parenti possono essere il primo veicolo di trasmissione, eventualmente non devono avere febbre e un tampone negativo di due giorni prima».