Punti nascita in montagna Il «modello» Belluno funziona
Nessun miracolo, costi più alti messi in conto, ma determinazione nella «rivoluzione» organizzativa, compresa la mobilità, quella oggi contestata in Trentino, dei medici e del personale sanitario. Ecco come, nel Bellunese, sono riusciti a mantenere in vita il punto nascite del presidio ospedaliero «Giovanni Paolo II» di Pieve di Cadore, 45 km distante dal capoluogo, appena 130 parti nel 2014.
Un modello per chi in Italia si batte per la difesa dei piccoli ospedali di montagna.
È il secondo punto nascita che fa capo all'Ulss 1 di Belluno, perché quello di Agordo, che era sotto i 100 parti all'anno, è chiuso da tempo. L'altro punto nascite della provincia è quello di Feltre, che però fa capo all'Ulss 2 (anche se è prossima, decisa dalla Regione Veneto, la creazione di un'unica Ulss). «La popolazione dell'Agordino, ad una ventina di km, gravita ora su Belluno» spiega Raffaele Zanella , direttore della rete ospedaliera dell'Ulss 1 «mentre chi vive nella zona di Arabba fa riferimento all'ospedale di Brunico».
Dottor Zanella, quanti sono i parti complessivi?
«Nel 2014, 650 a Belluno più i 130 di Pieve di Cadore, che serve l'area da Sappada a Cortina. Diciamo, la media è di circa 800 parti all'anno».
L'indicazione è di almeno mille parti, la deroga permette di arrivare a 500: come fate a tenere aperto un punto nascita da 130 parti?
«Il servizio è garantito da una squadra di ostetriche, pediatri, ginecologi e anestesisti».
Con quale presenza?
«C'è una presenza attiva del pediatra tra le 8 e le 20, poi va in pronta disponibilità, cioè in reperibilità, dalle 20 alle 8. L'ostetrica è presente 24 ore su 24, il ginecologo dalle 8 alle 20, ma è garantita una doppia, pronta disponibilità: due medici ginecologi sono reperibili la notte in caso di cesareo urgente».
E l'anestesista?
«A Pieve di Cadore è presente 24 ore su 24, perché il presidio ha due posti letto di terapia intensiva, e l'anestesista interviene anche nei reparti di degenza. Il tutto funziona perché c'è un'unica squadra di pediatri, e lo stesso vale per i ginecologi e le ostetriche, che ruotano su due sedi. I due punti nascita fanno capo alla stessa unità operativa».
Doversi spostare di 45 km: il personale coinvolto non l'avrà presa bene...
«C'è un indubbio svantaggio per chi deve spostarsi, c'è invece un vantaggio per il profilo professionale, perché c'è una maggiore omogeneità nel lavoro».
Come l'avete risolta contrattualmente?
«C'è un contratto unico dello specialista con l'Azienda, per cui è assegnato all'Ulss e può essere chiamato ad operare su tutte le sedi (con una foresteria a disposizione). C'è stato chi, assunto con il vecchio contratto, lo ha impugnato. Ma l'elevato turn-over ha garantito l'avvio del servizio. Per altro, oggi, con il decreto Madia è previsto lo spostamento del dipendente pubblico nel raggio di 50 km».
Quand'è partito il servizio?
«La rotazione sui due punti nascita è operativa da cinque anni».
Quali sono i maggiori costi?
«Costa garantire la reperibilità. Ci vogliono due ginecologi e due pediatri in più. L'ostetrica dovrebbe comunque essere presente, così l'anestesista. Il nostro problema è trovare gli specialisti. Dall'Università di Padova escono pochi pediatri all'anno: c'è quello che va a fare ricerca in Usa e quelli che vanno a fare i pediatri di base, ma preferiscono fermarsi a Cittadella, Treviso, Mestre, nei centri più grossi. Paghiamo il conto del contingentamento degli specialisti».
Il punto nascite di Pieve di Cadore, dunque, avrà lunga vita?
«Con la chiusura di San Candido, contiamo su qualche ritorno a Pieve (dove c'è anche un centro per la procreazione assistita che integra e valorizza il punto nascite) dalla zona di Ampezzo e dell'Alto Comelico, arrivando a 150-170 parti».
Ne vale la pena?
«Qui c'è un problema di viabilità: l'A27 si ferma prima di Longarone. Certo, non ci sono le milionate di euro del passato, ma una presenza va comunque garantita: in Danimarca mandano le ostetriche a casa con gli sci da fondo. Importante è garantire una selezione accurata nel percorso nascita, perché più di due terzi dei parti sono a basso rischio. Siamo un Paese che soffre di denatalità. Risorse, nella sanità, si possono trovare altrove, dall'ambito chiururgico, dove è quasi a regime il day surgery , ai minori costi dei dispositivi. La scelta, alla fine, è politica».