Base jumping sul Brento, il campione Di Palma duro

di Claudio Chiarani

«Se non lo fa chiudere il sindaco, ora lo faccio chiudere io». Perentorio, arrabbiato, stanco di dover parlare di morti (ieri la tragedia che ha ucciso Sebastian Muller) legate al suo sport preferito, quello che l'ha fatto conoscere al mondo intero, quello delle imprese legate al salto dal Duomo di Milano o dalla Torre dei Mangia di Pisa. Ma anche dalle Petronas Tower di Kuala Lumpur e da ogni altra postazione si possa farlo. Maurizio Di Palma è venuto ad abitare da Pavia a Dro per amore del paracadutismo, per amore del Trentino, per amore della sua fidanzata.


«Un giorno - sbotta - un giorno solo che non vengo qui a saltare e capita il morto. Oggi ero via per altre cose, quando sulla via del ritorno ho ricevuto una di quelle telefonate che non vorrei mai ricevere. Quella che stavano cercando uno, che gli amici non vedendolo più arrivare avevano allertato l'elisoccorso. Terzo in 3 giorni, dopo il falso allarme di 2 giorni fa e il russo ferito gravemente ieri. Speravo, invece il soccorso alpino ha trovato un cadavere».
Quale soluzione propone allora? «Non bisogna portarli fino al decollo, qui si deve tornare a salire a piedi a San Giovanni, camminare un'ora per arrivare all'exit point (il punto di uscita sulla parete zebrata, ndr) e automaticamente vedrete che, riducendo il numero di salti si ridurrà automaticamente anche il numero delle possibilità d'errore. Stavolta - prosegue - non possono rimanere sordi, sono troppi i morti. E siamo appena a stagione iniziata. Questa gente salta senza regole, nemmeno tra di loro si controllano. Non guardano se chi si è lanciato ha aperto, vola, atterra. A loro basta sapere dove si salta e poi chissenefrega. Il Brento è uno dei posti più belli al mondo, ma se va avanti così è meglio che lo chiudano. Oggi sono il primo a chiederlo. Troppi morti, basta!».


La penultima vittima del Brento si chiamava Leonardo Piatti, 39 anni, di Pesaro. Anche lui come Müller non indossava la «Wingsuit» ma una più semplice «Tracksuit», una sorta di tuta da sci che si gonfia poco dopo il salto ma non permette prestazioni come l'altra, ossia di andare in volo planato e percorrere molta distanza tra sé e la parete. Però qui si tratta di un errore umano, un'apertura troppo ritardata del paracadute, un secondo di troppo nell'azionare la maniglia che lo estrae dalla sacca. Un secondo che ha fatto la differenza tra vita e morte, purtroppo.

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