Padre Gabriele Ferrari, 60 anni di Chiesa: «I preti devono imparare ad ascoltare»
Parla il missionario saveriano, a lungo impegnato in Burundi, che domenica scorsa ha festeggiato la ricorrenza nella chiesa di casa, quella di San Marco: «Ci sono poche vocazioni perché ormai è un mondo egoista. Eppure, se guardiamo alla nostra autonomia, un tempo c’era l’obbligo di prendersi cura degli altri»
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ROVERETO. La chiesa di San Marco, domenica mattina, si è riempita di fedeli per festeggiare i 60 anni di sacerdozio di padre Gabriele Ferrari, Saveriano e a lungo missionario in Burundi. Perché la missione fa parte del suo Dna anche se, per amore di Vangelo, è stato «costretto» a raggiungere i vertici dei Saveriani, congregazione religiosa che ha fatto della povertà una bandiera.
I 60 anni di sacerdozio festeggiati davanti a casa. Il suo obiettivo era però la missione, l'Africa.
Divenuto sacerdote, entrò nell'ordine dei Saveriani e partì per il Burundi. Eletto consigliere generale tornò a Roma per formarsi, poi venne eletto superiore generale, carica che ricoprì dal 1977 al 1989; tornò quindi per altri cinque anni in Burundi. Ora è responsabile del Centro di formazione permanente dei Saveriani.
Ogni anno passa tre mesi nel Paese africano, dove insegna nel seminario locale.
Dopo aver girato il mondo la messa, domenica mattina, l’ha celebrata sull’uscio di casa. Perché è nato lì, in quella strettoia che affianca San Marco. Ed è lì che ha raccolto la chiamata di Dio infilandosi in quel percorso tortuoso che si chiama fede.
Da trasmettere, prima di tutto, cosa non facile visto che l’egoismo ha cancellato anche le semplici strette di mano. Ebbene, ieri mattina i roveretani fedeli hanno voluto abbracciare il loro prete che, ad ottant’anni suonati, è ancora in prima fila per trasmettere la parola di Dio, una parola di speranza.
Il suo nome, ovviamente, è legato a filo doppio con il Burundi, la sua seconda Rovereto. Perché la missione fa parte del suo Dna anche se, per amore di Vangelo, è stato «costretto» a raggiungere i vertici dei Saveriani, quella congregazione religiosa che ha fatto della povertà una bandiera.
Padre Gabriele collabora pure con l'associazione Spagnolli ed è uno dei tanti missionari a cui l'attivo gruppo di solidarietà internazionale fa riferimento per i progetti di cooperazione allo sviluppo e di aiuto ai poveri del mondo.
Come ci si sente 60 anni dopo la prima messa?
«É un traguardo che mai avrei immaginato di raggiungere da giovane. Meno male che ce l’ho fatta e ci sono arrivato in forma. Si vede che l’ultimo piano funziona».
Dopo il tour del mondo torna a celebrare messa, di fatto, in pantofole visto che è davanti a casa.
«Già, festeggio proprio davanti a casa visto che sono nato in San Marco, davanti alla vecchia canonica. Casa mia, per dire, apparteneva alla parrocchia».
Il suo obiettivo, però, è sempre stato quello di essere missionario?
«Una grande voglia di essere missionario. La mia idea c’era già da qualche tempo. Anche se, a dirla tutta, prima il rettore del seminario voleva farmi studiare e avere profitti ma non ne avevo voglia».
Perché decidere di affrontare un mondo che poteva essere ostile?
«Perché allora c’erano tanti preti ma pochi missionari. E quel predicare altrove mi attirava. A dire il vero nella mia classe siamo partiti in tre come missionari, senza sapere nulla l’uno dell’altro».
Perché ha scelto proprio i Saveriani?
«Non è stata una scelta a caso. Padre Mario Veronesi, quello ucciso in Bangladesh nel 1971, era un amico di famiglia. Era un esempio per me e per questo mi sono avvicinato ai Saveriani. E così mi sono trovato nella stessa congregazione e quando padre Mario è morto io stavo rientrando in Italia perché eletto delegato al capitolo generale».
La sua missione è sempre stata in Burundi?
«Sì, sempre in Burundi. Da consigliere delegato delle missioni, però, ho visitato varie missioni in giro per il mondo. Ho avuto la fortuna, nella mia sfortuna, di non poter fare il missionario residente ma di vedere varie realtà».
E poi?
«Nel 1989, qundo ho finito il mio mandato di superiore generale, speravo di tornare in missione, di finire la mia vita lì. Invece nel 2000 mi hanno chiamato di ritorno. Erano gli anni della guerra e mi hanno chiesto di insegnare. Io, in fin dei conti, sono un tuttologo e ho insegnato di tutto».
La formazione e l’insegnamento sono le sue passioni?
«Sì, dopo il 2000 andavo su è giù dal Burundi a fare scuola. Ma a Vernerio, Como, condividevo gli studi coi miei confratelli. C’era la formazione permanente. Anche se, ripeto, di insegnare non ne avevo voglia».
Poi è arrivata, diciamo così, la pensione.
«Fino al 2019 mi sono mosso poi sono arrivato agli 80 anni e ho deciso che era meglio fermarsi. Non sono di quelli che pensa che si debba morire per forza in missione. Penso piuttosto che bisogna lasciare il posto ai preti locali».
E ci sono?
«Molto più che da noi. E mi piace tornare là. Se il padre eterno mi dà ancora da vivere continuerò ad ascoltare la gente. Purtroppo al giorno d’oggi ci sono tanti che non trovano ascolto».
Nella società o anche nella Chiesa?
«Anche nella Chiesa. I preti sono troppo presi dalle mille incombenze e non ci sono mai per ascoltare la gente».
La messa, però, continua a celebrarla?
«Altroché! Vado in giro a dire messe dove c’è bisogno».
C’è stato un tempo non troppo lontano in cui i fedeli trentini la invocavano come vescovo. Invece fu nominato Bressan. Cos’è successo?
«In quell’epoca cercavo di non venire in Trentino proprio perché non volevo fare il vescovo. Tutti me lo chiedevano e l’Adige, per dire, ha scritto che il cardinale Ruini aveva detto detto no a me come vescovo. Se questo è vero lo scrivo nell’elenco delle persone che mi vogliono bene».
Perché? La carriera ecclesiastica non le piace?
«La questione è che è complicato fare il vescovo. Cosa vado a fare io in una diocesi che perde persone anno dopo anno?».
I tentativi di promuoverla a vescovo, però, ci sono stati?
«Sì. Un primo tentativo c’è stato con il ritiro di monsignor Gottardi. Monsignor Visintainer mi diceva che la situazione era pericolosa. La sapeva lunga lui. Ripeteva che tra 20 anni non avremmo più avuto preti. E aveva ragione, era lungimiranza».
Declino della fede?
«Diciamo che mancano vocazioni. Nel nostro Trentino, e parlo io che lo vedo da fuori, c’è un mondo che cambia rapidissimamente. Non è ancora finito tutto il cambio».
Ma perché nessuno vuole più fare il prete?
«C’è un fenomeno molto bello e dall’altra c’è un risvolto pericoloso. Una volta c’era solidarietà molto sentita, c’era la voglia di lavorare per gli altri. Pensiamo a don Panizza e don Guetti che hanno messo in moto una solidarietà incredibile. E mi ricordo monsignor Pizzolli, che è stato mio professore e diceva che se in val di Non e in val di Sole non c’è nessuno in seminario è segno che la ricchezza ha corrotto la nostra gente».
Torniamo indietro. Come l’hanno presa i genitori la sua voglia di fare il prete?
«Mi ricordo da bambino che mia mamma e mio papà mi dicevano di non andare avanti “se non è la tua vocazione”. Un mio zio acquisito mi diceva invece che facevo bene ad andare prete perché “te salvi il fil de la schena”».
Il 28 giugno 1964 è una data importante?
«Certo, sono stato ordinato prete e c’era mia mamma fuori dal Duomo di Trento per assicurarsi che davvero fossi diventato prete. Mia mamma, lo voglio dire, mi ha sempre sostenuto in questo percorso. E mi diceva: “Se non è la tua vocazione vieni via stasera”. Sono andato avanti, sono diventato prete perché lo volevo e ci credevo. Forse mi sono fatto prete perché ho visto i cappellani di allora, come don Oreste Guarnieri».
Poi, però, c’è stato il richiamo dell’Africa?
«Quando sono andato missionario sono partito perché volevo fare qualcosa di più».
Ed oggi cos’è cambiato?
«Oggi il discorso dei genitori non è fare qualcosa per gli altri ma pensare a noi stessi e questo non va affatto bene».
Parliamo di vocazioni. Perché nessuno sente più la chiamata?
«Oggi il Trentino è effettivamente diventato un deserto di vocazioni, anche di suore. Questo rientra nel rischio di essere egoista: penso a me e gli altri pensino a loro stessi. Purtroppo è una mentalità leghista che ha preso il sopravvento e sta minando le vocazioni: prima io e poi gli altri».
Il suo rapporto con Rovereto com’è?
«Vengo quando posso, sono pure sempre roveretano. L’altro giorno col vescovo di Como abbiamo visitato la distilleria Marzadro e c’era anche il vescovo di Trento don Lauro Tisi. Ci ha spiegato che la nostra autonomia è nata con spirito solidaristico. Che significa, per dire, mettere due giorni da parte per gli altri. Le vecchie Regole trentine prevedevano che ognuno dovesse spendersi per gli altri e le valli Non e Sole, Fiemme e Fassa ce lo hanno insegnanto. Ma stiamo perdendo la nostra storia. Purtroppo il Trentino solidale ora è sfumato».
Lei ha studiato assieme a Luigi Bressan che è diventato vescovo di Trento.
«Sì, è vero, con Bressan abbiamo studiato insieme e poi lui è diventato vescovo. Meglio lui di me».
È vero che con papa Giovanni Paolo II ha discusso in maniera accesa?
«Ai tempi di Wojtyla io ero superiore generale dei Saveriani. Lui veniva dalla Chiesa polacca e non si poteva parlare di teologia della liberazione. Sull’argomento avevamo parecchi problemi. Insieme ad Alex Zanotelli abbiamo combattuto molte battaglie».
Un ostacolo così duro?
«La teologia della liberazione è Vangelo puro. Non è marxismo. Wojtyla, però, ha tirato i bulloni. Erano tempi particolari però devo dire che poi lui ci ha ascoltato. Quando è tornato dal Nicaragua, dove è stato contestato, ha attribuito ai Gesuiti e ai missionari la causa di queste turbolenze teologiche. Ovviamente non eravamo d’accordo. E infatti ci ha convocato ogni martedì in Vaticano a discutere i problemi della vita religiosa».
Incontri proficui?
«Sì, era un bel discutere anche se poi ci invitava a fermarci per pranzo ma io mi non fermavo, non mi piaceva».
Torniamo un attimo in Africa. In Burundi c’è pure un pezzo profano di Rovereto, firmato Guglielmo Valduga.
«In Burundi abbiamo fondato una scuola a Gatumba. E poi Valduga è venuto a trovarci».