L'autoassoluzione politica di Grisenti
Riproponiamo l'editoriale del direttore sulla vicenda Grisenti e sulla sua reazione alla sua sentenza di condanna definitiva per truffa aggravata e il rinvio a processo per corruzione propria e tentata concussione, vantandosi e basando su questo il suo rientro in politica, solleva una profonda riflessione sulla concezione di pubblico amministratore che vi sta alla base
Riproponiamo l'editoriale del direttore sulla vicenda Grisenti e sulla sua reazione alla sua sentenza di condanna definitiva per truffa aggravata e il rinvio a processo per corruzione propria e tentata concussione, vantandosi e basando su questo il suo rientro in politica, solleva una profonda riflessione sulla concezione di pubblico amministratore che vi sta alla base
L'arroganza senza limiti con cui Silvano Grisenti ha accolto la sua sentenza di condanna definitiva per truffa aggravata e il rinvio a processo per corruzione propria e tentata concussione, vantandosi e basando su questo il suo rientro in politica, solleva una profonda riflessione sulla concezione di pubblico amministratore che vi sta alla base.
La questione di fondo, infatti, non è di tipo giudiziario, e cioè se l'ex potente assessore può candidarsi o no alle elezioni dopo la sentenza della Cassazione. Per quanto gravissima sia la condanna di truffa aggravata per un aspirante presidente della Provincia (un dirigente di azienda privata verrebbe licenziato seduta stante se con i soldi della società pagasse le sue cene private ad amici e conoscenti), l'interdizione dai pubblici uffici non era prevista prima della sentenza, e non lo è stata nemmeno dopo.
Benché i giudici del terzo grado di giudizio non abbiano in alcun modo «legittimato» Silvano Grisenti come presuntuosamente e falsamente egli ha dichiarato, l'incompatibilità con il ruolo di pubblico amministratore è sul piano politico ed etico, non giudiziario.
Perché ai giudici tocca semplicemente vagliare ipotesi di reato, e confermarle o meno.
Non spetta alla magistratura decidere chi è «presentabile» e chi invece è «impresentabile» alle elezioni.
Il metodo Grisenti, quello passato alla storia come «la magnadora», si è fondato su una gestione personalistica e privatistica del potere, dove non esistevano distinzioni di ruoli e conflitti d'interesse, dove il confine tra la politica e gli appalti era labile, e di fronte all'assessore e al presidente dell'A22 gli interlocutori assumevano più l'aspetto di «clientes» al cospetto del padrino- protettore che quello di cittadini di fronte ad un pubblico amministratore.
Come spiegare altrimenti che l'A22 sotto la presidenza di Silvano Grisenti era diventata una ragnatela di potere e di controllo della politica, in cui imprese, progettisti, istituzioni, rami deviati della Provincia e dei suoi funzionari intrecciavano cordate d'affari, imbastivano appalti come quello dell'ospedale, discettavano di criteri di gara, di chi ne doveva beneficiare e in che quota?
Come definire il crocevia di interessi privati e atti pubblici in cui era stato ridotto l'ufficio impersonato da Grisenti, che in A22 riuniva spezzoni della magistratura amministrativa (il giudice del Tar) e delle forze dell'Ordine (l'ex comandante dei carabinieri) per stabilire strategie o appurare gli orientamenti del tribunale in merito alle sentenze da discutere e pronunciare?
E ancora: come qualificare le sessioni di una società a controllo pubblico quale l'A22 che gestisce centinaia di milioni di euro l'anno per conto degli azionisti (cioè i cittadini elettori) dedicate invece a «sbrigare affari», a intessere rapporti e via vai di sindaci, parroci, sodali di partito e di corrente, funzionari chiamati a mettere a punto delibere da portare in giunta il venerdì dopo?
Si tratta di un sistema, il «sistema Grisenti», incompatibile con la «buona politica», per lo meno con una sana politica, dove il politico è chiamato a stabilire le regole, indicare gli obiettivi e i percorsi, ma non mette le «mani in pasta» gestendo direttamente gli affari, senza rispetto e distinzioni di ruoli e di funzioni, dell'autonomia ed equidistanza verso ogni altro soggetto, che sia il sindaco di un Comune, il giudice del Tar, il comandante dei carabinieri, ma anche l'imprenditore che non deve essere obbligato ad avere «il padrino» in Provincia o in A22 per ottenere l'appalto, ma semmai deve saper offrire condizioni competitive per l'ente pubblico.
Da un punto di vista politico ed etico sono questi i veri macigni che incombono su una candidatura alle prossime Provinciali di Silvano Grisenti, magari una candidatura a Presidente della Provincia. Non solo perché sono sistemi da «vecchia politica», che danni enormi ha causato alla collettività (pensiamo solo all'intreccio perverso e incestuoso fra banche e politica che ha portato al dissesto del Monte dei Paschi, dove sono stati imposti amministratori che obbedivano ai politici e non alla buona gestione della banca). Ma perché costituiscono un «vulnus» istituzionale pericolosissimo per il Trentino che nei prossimi anni dovrà affrontare una profonda revisione organizzativa e delle proprie politiche di spesa, che scontenterà molti ma dovrà essere fatta per garantire una sopravvivenza e un futuro all'Autonomia. Come potrà essere fatto questo senza una trasparenza totale (ma anche un'autorevolezza etica) dei pubblici amministratori? Come potrà realizzarsi se il sistema è quello dei padrini e dei favori, dell'assessore amico che ti fa avere il contributo, e della pratica che va avanti solo se c'è qualcuno che la spinge?
Che Trentino pensiamo di costruire su tali presupposti che hanno portato al dissesto del Paese e alla disgregazione morale delle istituzioni?
Senza contare en passant che su Silvano Grisenti, oltre ad una condanna per truffa aggravata, pesano due processi per corruzione propria e tentata concussione. Cosa succederebbe in caso di condanna se l'ex presidente dell'A22 ricoprisse il ruolo di presidente della Provincia o di assessore in giunta? Si dovrebbe dimettere facendo sciogliere il consiglio provinciale? Dovrebbe restare al suo posto con le eventuali condanne che gravano sul suo capo? L'Autonomia ne resterebbe paralizzata.
La fama di decisionista di cui Silvano Grisenti gode, può essere un merito in un'epoca caratterizzata da amministratori «tentenna» incapaci di decidere e di assumersi responsabilità. Ma il vero decisionista non è quello che fa tutto da solo, mescolando ruoli e funzioni, non capendo quali sono i suoi compiti e i suoi confini, e guardando ai suoi interessi partitici e di consenso elettorale prima dell'interesse generale.
Il buon amministratore sa prendere le decisioni e assumersi le responsabilità dentro le regole stabilite, e non sopra le regole.
Il Trentino ha bisogno di classe dirigente non di «salvatori della patria». Gli uomini soli al comando rischiano di ubriacarsi del potere, e di andare fuori strada.
Un rischio troppo grosso che non possiamo correre.