La dieta dei nostri nonni? Fame, polenta e...
La dieta dei nostri nonni? Fame, polenta e...
Stimolato dalla proposta del professor Andrea Segrè, di richiedere il riconoscimento da parte dell’Unesco, quale Patrimonio dell’Umanità l’alimentazione dell’arco alpino, mi sono chiesto quali fossero le vere peculiarità delle nostre abitudini alimentari, inquadrandole in un contesto storico-evolutivo. Condivido con voi queste mie riflessioni.
È indispensabile ricordare che fino a 15-20.000 anni fa, prima che si concludesse l’ultima glaciazione, sopra le Alpi si estendeva uno strato di ghiaccio dello spessore di circa un chilometro e mezzo (sì avete letto bene, 1.500 metri di ghiaccio!), tale da far sembrare le nostre belle montagne delle modeste colline.
A causa del clima più freddo, il ritiro dei ghiacci nei territori alpini è avvenuto con un certo ritardo, e la nostra regione, fino a 4-5.000 anni fa, era scarsamente abitata. L’alimentazione dei popoli che abitava queste zone era prevalentemente dipendente dalla cacciagione e dai cibi raccolti, quali tuberi, radici, germogli, bacche, semi, noci, nocciole, funghi e possiamo immaginare che solo la stagione autunnale potesse garantire un buon apporto energetico grazie alla maturazione di frutta selvatica, bacche, piccoli frutti o di frutta amidacea come le castagne.
A quel tempo l’elemento accomunatore delle popolazioni alpine probabilmente era la fame. Al completo scioglimento dei ghiacci, l’agricoltura in questi territori arrivò con un certo ritardo, rispetto alle pianure, anche per la brevità della stagione calda e solo in tempi più recenti, 3-4.000 anni fa, si iniziarono a coltivare cereali minori, come il farro o la spelta, cereali più resistenti al freddo. Allora si produceva una specie di pane scuro e duro che spesso si accompagnava a carne essiccata o affumicata, che ci piace immaginare come gli avi dello speck.
Se il territorio alpino si prestava poco all’agricoltura, offriva invece ampi pascoli che hanno consentito un rapido sviluppo dell’allevamento di capre, pecore e successivamente di bovini. Ciò permise, oltre che avere una certa continuità nell’approvvigionamento di carne, di avere a disposizione il latte che veniva consumato fresco oppure trasformato in latti fermentati e soprattutto sotto forma di formaggi. Cibi ad alto tenore proteico ed energetico, peraltro assolutamente nuovi da un punto di vista evolutivo.
Fu solo dopo la scoperta dell’America che in Trentino arrivarono due alimenti che noi oggi consideriamo tipici delle nostre zone: le patate ed il mais. Fino al 1700, in tutta Europa, le patate venivano date solo ai maiali, nella convinzione popolare che il loro consumo facesse venire la lebbra, ma nel giro di pochi decenni le popolazioni montane, e soprattutto quelle nordiche, divennero tra i più grandi e assidui consumatori di questo prezioso tubero.
Così fu per il mais, arrivato nelle nostre regioni appena 300 anni fa, nel giro di un secolo fece della polenta il piatto più tipico del Trentino. Pensate che intorno alla metà dell’800 il consumo di farina gialla ammontava a 120 chilogrammi per ogni persona all’anno. Oggi il consumo annuo è crollato a meno di 3 Kg.
La coltivazione pressoché unica di questo cereale portò come conseguenza lo sviluppo di una grave malattia carenziale, la pellagra, che nell’800 in Trentino mieté migliaia di vittime. Il mais purtroppo è uno dei pochi alimenti presenti in natura che non contiene la vitamina PP - Pellagra Preventive, indispensabile per il nostro organismo. La pellagra è detta la malattia delle 3 D perché si presenta con una Dermatite, la Diarrea e la Demenza.
A Rovereto nel 1898 si costruì il Pellagrosario, un enorme struttura che ospitava centinaia di ammalati di pellagra che, fondamentalmente, necessitavano solo di un’alimentazione un po’ variata, che includesse alla fine della giornata altri cibi che non fossero la polenta. Sembra che il manicomio di Pergine ospitasse centinaia di questi poveri «psicotici», divenuti tali perché alla fin fine si erano nutriti per anni e anni solo di polenta. Anche i miei genitori, ormai novantenni, ricordano che, quand’erano bambini, la polenta veniva preparata anche tre volte al giorno: a colazione, a pranzo e a cena.
La grande fame di allora ha portato i Trentini ad essere anche dei consumatori di insetti, secondo le direttive suggerite oggi dalla Fao, l’Organizzazione Mondiale per l’Alimentazione. Mia nonna, nata negli ultimi anni del 1800, mi raccontava che i bambini in primavera andavano nelle campagne e con delle pertiche scuotevano i rami degli alberi da frutto, in particolare dei ciliegi, per far cadere a terra i numerosissimi maggiolini, quelli che in dialetto trentino venivano chiamati «zorle».
Questi venivano raccolti in ceste e portati a casa, dove le donne li mettevano poi ad «abbrustolire» nei forni a legna. Quando poi i maggiolini si erano completamente seccati, venivano macinati e se ne faceva una farina che veniva aggiunta ai miseri piatti di allora, nutrizionalmente molto carenti, per arricchirli di proteine. In un certo senso potremmo dire di essere stati dei precursori delle moderne tecniche di preparazione di farine a partire da grilli, mosche o formiche.
Tra cinquanta o cento anni l’enorme progresso delle conoscenze scientifiche e lo sviluppo di tecnologie produttive sempre più innovative, ci porterà a consumare cibi che oggi non siamo nemmeno in grado di immaginare. Chissà che cosa mangeranno i nostri nipoti?